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‘Così non si può vivere’: la storia di Chinnici che sfidò gli ‘intoccabili’

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E’ l’estate del 1983 quando Cosa Nostra decide che il consigliere dell’Ufficio Istruzione, Rocco Chinnici, sa troppo. Troppo dei traffici illeciti dei mafiosi, troppo della loro organizzazione e dei loro patrimoni. Il suo obiettivo è quello di stanare i colletti bianchi, quel livello della mafia considerato intoccabile. E per portarlo avanti dà vita al pool antimafia. Ma arriva, e ne era consapevole, a sacrificare la sua stessa vita.

Oggi, trentuno anni dopo, la sua storia ce la raccontano i giornalisti Eleonora Iannelli e Fabio De Pasquale nel loro libro “Così non si può vivere”, presentato alla libreria Mondo Libri.

Da cosa nasce il bisogno di scrivere un libro su un personaggio come Rocco Chinnici? Qual è il messaggio che volete far arrivare?

“Nasce dall’aver scoperto che Rocco Chinnici è una vittima di mafia sconosciuta alle nuove generazioni, nonostante i suoi tanti meriti e intuizioni felici. Fu il “padre” di Falcone e Borsellino, colui che li scelse e li chiamò al suo fianco, fu l’ideatore del pool antimafia, fervido propugnatore della legge Rognoni-La Torre e pioniere nell’applicarla, soprattutto per la confisca dei beni ai “colletti bianchi”. Fu il primo a mettere il naso sui conti correnti e i patrimoni sospetti e a perseguire non solo la mafia militare, ma quella più subdola che si nascondeva dietro gli intoccabili. Il primo a capire che dietro i delitti eccellenti, politico-istituzionali, ci fosse un’unica regia, quella della Cupola, ma anche di qualche mente raffinata, come poi dirà Falcone. E per questo firmò la sua condanna a morte, che arrivò dal “tribunale della mafia” com’era scritto in una lettera di minaccia recapitata, vittima a scopo punitivo e a scopo preventivo. Ma fu ucciso anche per la sua attività divulgativa di prevenzione, tra i giovani delle scuole e delle università. Il “giudice papà” lo chiamavano, il primo a mettere in guardia i ragazzi dal pericolo della mafia, a predicare la cultura della legalità, mentre alcuni colleghi e superiori lo deridevano per le sue iniziative pubbliche e lo delegittimavano. Con il nostro libro, concepito su proposta della figlia Caterina e realizzato con le testimonianze della famiglia e di chi lavorò con lui o lo conobbe bene, abbiamo inteso dare un contributo per restituire dignità storica a un eroe dimenticato. L’intento è di rievocazione, divulgazione, inchiesta per scoprire anche aspetti inquietanti e misteriosi”.

Com’è stato scrivere un libro a quattro mani fra marito e moglie? 

“Idea nata quasi per scherzo, poi con condivisione, animate diatribe e anche qualche sana litigata. Fabio ha condotto soprattutto le ricerche giudiziarie e studiato le carte processuali; io mi sono dedicata, in particolare, alla scrittura del testo; le interviste, una trentina, le abbiamo realizzate assieme. Entrambi, comunque, siamo stati interscambiabili al bisogno”.

Chinnici tra le vittime della mafia non è tra quelle che provocano grandi suggestioni ed emozioni rispetto a personaggi come Falcone, Borsellino o Peppino Impastato. Perché secondo voi?

“Perché non è conosciuto, appunto. Non si sa quasi nulla di lui, della sua attività, del suo diario segreto, che noi pubblichiamo per la prima volta in versione autografa, dei misteri che circondano la strage e il lungo processo. Ancor oggi rimangono lati oscuri”.

C’è una polemica che coinvolge mondo politico e imprenditoriale, che litigano e si accusano reciprocamente di essere più o meno mafiosi. Una guerra di bottega e di potere giocato sul sentimento anti mafia e che riprende una polemica di Leonardo Sciascia che parlò di professionisti dell’antimafia, cioè di chi speculava sulla questione. Cosa ne pensate?

“Che oggi, forse più di prima, imperversano taluni professionisti dell’antimafia, che Chinnici, avvezzo a lavorare dietro le quinte con rigore e dando l’esempio, forse avrebbe saputo smascherare”.

Alla presentazione del libro sono intervenuti anche il giudice del Tribunale di Catania Santino Mirabella, il Presidente della Commissione antimafia regionale Nello Musumeci e il magistrato Antonella Barrera.

Mirabella ha sottolineato il fatto che la mafia non è una questione solo di mentalità, è un fatto criminale e come tale va trattata. “Spesso siamo portati ad immaginare i mafiosi come dei grandi strateghi che pianificano ed organizzano, ma in questo modo non facciamo altro che sopravvalutarli”. E non possiamo non cogliere il riferimento a Brecht quando parla di gangster.

“La mafia è l’antistato che cerca alleati all’interno dello Stato” – sostiene Nello Musumeci nel suo intervento. Prosegue ricordando Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, il loro stato di isolamento e il loro destino di morte. “La morte di Chinnici può essere considerata uno spartiacque tra una prima fase della Repubblica fatta di ombre e una seconda fase fatta invece di maggiore consapevolezza e impegno”. Sottolinea inoltre il fatto che nel libro emerge il lato di Chinnici puramente umano, quello che va oltre il magistrato, grazie alle testimonianze di familiari e amici.

Barrera apprezza il fatto che gli autori portano per mano il lettore attraverso diversi percorsi e approcci al libro. “Il libro può essere letto da diversi punti di vista: c’è quello del magistrato che legge un libro su un magistrato che ha fatto del proprio lavoro una religione. C’è il punto di vista della figlia, in cui ogni ragazza può provare ad immedesimarsi, che nonostante fosse presente quel tragico giorno decide di seguire le orme del padre per non rendere vano il suo sacrificio. E c’è il punto di vista del cittadino che cerca di capire quegli anni difficili e riflette sulla nostra contemporaneità”.

Un libro che aiuta a capire e a riflettere, che dà valore ad un personaggio considerato non una semplice colonna della lotta antimafia, ma il maestro di Falcone e Borsellino. Un uomo che, consapevole del pericolo costante in cui viveva, non si è fermato di fronte alle paure e alle minacce, portando avanti la lotta in cui credeva. Tanto, diceva: “Per un magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare”.


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